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© Giacomo da Itri,  papa Urbano VI e S. Caterina da Siena

di Albino Cece

 

Sappiamo da alcune pergamene che Giacomo Vis fu originario di Itri; è però incerta la sua data di morte avvenuta forse nel 1387. Certo è che egli fu prima vescovo di  Ischia quindi arcivescovo di Otranto; nel 1376 lo troviamo patriarca di Costantinopoli nominato dal pontefice Gregorio XI; due anni dopo, dall'antipapa Clemente VII fu insignito del titolo di cardinale di S. Prassede e legato apostolico.

In un documento[1] redatto non prima del settembre del 1370, un certo Guglielmo di Itri vende al concittadino Perrella alcune case poste nella contrada Porta nova: "domos cum... sitam in castro Itri, loco ubi dicitur la Porta nova iuxta viam puplicam a duabus partibus..."; sul verso della pergamena, molto rovinata, è scritto "compra della casa avanti il monastero".

L'atto assume una enorme importanza storica per qualche parola riportata nel suo preambolo redatto dal giudice di Itri Bartholomeus Iacobi Constantinelli e da un notaio di cui è scomparso il nome.

Lo strumento è redatto "apud Itrum", come chiaramente si legge nel 4° rigo della edizione del Codex Diplomaticus Cajetanus.; tra il 6° ed il 7° rigo è chiaramente anche scritto: "et subscripti litterati testes de eadem terra Itri, videlicet domnus archiepiscopus Ydrontinus" che, tradotto, viene "ed i sottoscritti testimoni letterati di quella terra d'Itri, vale a dire del signor arcivescovo Idrontino".

Questo arcivescovo idrontino (di Otranto) è Giacomo di Itri, poi cardinale di S. Prassede, avversario del forse conterraneo papa Urbani VI. In quest'atto il giudice Costantinello quasi si gloria che Itri abbia dato i natali a questo Giacomo.

Il C.D.C. lo identifica nel predetto documento[2] e annota che si tratta di quel Giacomo di Itri che incontreremo ancora in un documento del 1381 come cardinale di S. Prassede. Sono queste, nuove conferme dell'origine itrana di Giacomo[3].

Sua prima dignità fu l'episcopato di Ischia (1358), da cui, ancora semplice eletto, venne trasferito a Marturano in Calabria (1359, marzo 22); nel 1363, dicembre 20, ebbe la nomina ad arcivescovo di Otranto.

Nella Quaresima del 1367 Giacomo era nel regno di Sicilia insieme con il legato, cardinale Albornoz, e nel parlamento generale del regno tenne un discorso alla presenza della regina Giovanna.

Nel 1370 Urbano V lo fece visitatore dei monasteri basiliani del regno di Sicilia, ed in tale qualità era forse di passaggio ad Itri al tempo del nostro documento.

Alcuni anni dopo, 1376, gennaio 18, Gregorio lo innalzò a patriarca di Costantinopoli, lasciandogli in amministrazione la chiesa di Otranto[4].

Come vicario patriarcale ebbe il francescano Antonio Balistari arcivescovo di Atene.

A Giacomo, arcivescovo di Otranto, scriveva S. Caterina da Siena[5]:

Fu tra i primi a prestare omaggio ad Urbano VI dopo la sua elezione. Ma ben presto prese le parti a lui contrarie di cui divenne uno dei principali fautori, come ricorda la bolla di scomunica di Urbano VI (1378, novembre 29). Infatti, quando i cardinali si riunirono ad Anagni nel 1378, agosto 9, per dichiararsi contro Urbano, Giacomo celebrò la Messa dello Spirito Santo e tenne il discorso di circostanza.

Non fa quindi meraviglia che sia stato compreso nella prima creazione di cardinali fatta da Clemente VII a Fondi (1378, dicembre 18).

Non tutti gli autori, ad es. l'AUBERY, ammettono che abbia avuto un primo titolo in S. Prisca, che invece propenderebbe ad assegnargli esclusivamente l'EUBEL, Hierarchia catholica M.A., I, p. 45, pur citando in nota il CRISTOFORI, Storia dei Cardinali, p. 108 che assegna all'opzione la data del 1387; erroneamente però perché il nostro documento del 1381 lo dice del titolo di S. Prassede.

Partendo dall'Italia, Clemente ve lo lasciò come suo legato. Ma caduto in mano di Carlo di Durazzo insieme con il cardinale francescano Leonardo Rossi da Giffoni, nel 1381, settembre 18, fu con esso, con Tommaso Brancaccio intruso nel vescovato di Chieti, e con l'abate di Piedigrotta Masello Caracciolo, condotto, per ordine del legato di Urbano VI, cardinale Gentile de Sangro, che aveva seguito nel regno il conquistatore, nella chiesa di S. Chiara in Napoli.

Ivi alla presenza del re, di molti signori e gran popolo, furon costretti ad abiurare Clemente VII e riconoscere Urbano VI, mentre i loro cappelli cardinalizi  e le infule ricevute da Clemente venivano gettate sul fuoco.

Pare che poco dopo questo fatto, che il Baluze qualifica come "insatiabilis crudelitas", Giacomo sia stato rimesso in libertà. Probabilmente morì, senza più andare ad Avignone, nel 1387.

Il CONTELORIO, Elenchus...cardinalium, p. 180, lo vorrebbe invece morto nel 1393 (7?), marzo 30, ma questa data è da riferirsi ad una lettera di Clemente VII che lo dà già come defunto[6].

Abbiamo ancora altri due documenti importanti riportati dal C.D.C. che riguardano il cardinale Giacomo da Itri.

Nel primo, il monastero di S. Martino, il 30 giugno 1382, concede a Giacomo de Domenico di Itri[7] una "possessione ipsius monasterii cum arboribus olivarum, ficuum et vitium, sitam... loco qui dicitur Pangnanum" (nel verso del documento è annotato: Pagiano e Pagnano).

In questo documento, la cui scrittura è in parte scomparsa, troviamo presente "venerabilem virum domnum Nicolaum Iacobi de Ytro archipresbiterum Maranule, camerarium et generalem vicarium consistutum per reverendissimum in Christo patrem et dominum Iacobum de Ytro divina miseratione cardinalem Constantinopolitanum in regno Sicilie... citra farum ac in partibus totius Ytalie Apostolice Sedis Legatum..." che ha sottoscritto l'atto col "Nos" anzichè con l' "Ego".

Nel secondo, i canonici di S. Maria di Itri ottengono, il 30 maggio 1381, l'erezione del loro capitolo con i diritti di cui già godono i canonici di S. Angelo della stessa città[8], dal Cardinale Giacomo di S. Prassede, legato apostolico. Così richiedono al cardinale: "... canonici dicte ecclesie Sancte Marie de Ytro, cum istantia supplicaverunt tam pro se quam pro aliis canonicis dicte ecclesie, pro quibus promiserunt de rato, reverendissimo in Christo patre et domino domno Iacobo miseratione divina tituli Sancte Praxede presbitero cardinali, Apostolice Sedis legato, quod dignaretur concedere eius canonicam et unionem in dicta ecclesia Sancte Marie".

Questi è Giacomo di Itri. Si vede da questa come da altre carte come la sua autorità fosse sentita nella sua città natale che, senza dubbio, contribuiva a mantenere nella soggezione a Clemente VII, il quale, come è noto, si dice che vi si sia anche fermato presso la famiglia Sferra[9].

Anche se citata dal C.D.C., il testo della lettera scritta da Santa Caterina da Siena a Giacomo d’Itri è completamente sconosciuto agli storici locali.

S. Caterina da Siena scrive a Giacomo da Itri quale arcivescovo di Otranto la lettera[10] n. 183 nella speranza  di riportarlo all’obbedienza del papa Urbano VI da essa sostenuto e riconosciuto nell’ambito delle lotte di supremazia papale scatenate da Onorato I di Fondi  col Grande Scisma d’Occidente.

Il testo integrale della lettera che riportiamo qui di seguito compreso le note originali (opportunamente adattate) ci offre altre notizie sul personaggio itrano.

 

Lettera CLXXXIII. ‑ All'Arcivescovo d'Otranto[11].

 

Chi studia sè per amore proprio, badando a sè stesso, va addietro, non innanzi nella verità; si sconosce. Nella via del lume non temiamo nè triboli nè la­droni. Il più danno che possan farei i nemici è rapirci l'amore. Ma nè questo nè altro ci possono fare, se noi non cediamo a essi l'arme della nostra li. bera volontà. Pare che Caterina indovinasse l'animo debole di questo ve­scovo; il quale, forse più per debolezza di suddito ligio a Giovanna, e per vanità, che per malizia, seguì poi lo scisma. Da' mali d'Italia e della Chiesa deduce ragione a speranza. Propone un nuovo Generale dell'Ordine.

Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.

A voi dilettissimo e reverendo padre in Cristo Gesù, io vostra indegna Catarina, serva e schiava de' servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo, con desiderio di vedervi pastore buono e fedele a Cristo Gesù, col lume e cognoscimento della sua bontà. Sapete che colui che va col lume di notte[12]  non offende: così l'anima che è alluminata di Dio[13], non può offendere; perocchè apre l'occhio del cognoscimento e della ragione, e ragguarda che via tenne quello dolce Maestro suo. E come l'ha veduta, per volontà e desiderio ch'egli ha di seguitare il maestro subito corre con sollicitudine e senza negligenzia; non sta a voltare il capo in dreto, cioè a vedere sè medesimo. Vede bene sè coi cognoscimento de' peccati e difetti suoi; e confessa, sè per sè non es­sere: e cognosce in sè la smisurata bontà di Dio, che gli ha dato ogni essere. E a questo cognoscimento si debbe sempre rivoltare e stare; ma dico che non si volti nè si debba voltare a vedere sè per amore proprio e delettazione, nè per piaci. mento di veruna creatura[14]. Dico che l'anima che è illumi­nata dal vero lume, a questo non si volge; ma poi che ha veduto sè, e trovata la bontà di Dio, allora si da per la via[15], cioè per tutte quelle vie e modi che tenne il dolce Gesù, e li Santi che 'l seguirono. Ponsi Gesù per obietto suo; ed è tanto il desiderio e l'amore che ha di tenere la via dritta per giugnere al suo obietto, fine dolce suo, che, perchè trovi spine e triboli e ladri che 'l volessero robbare[16], non cura nè teme di cavelle; nè per veruna cosa che trovi, vuole tornare indreto. Perocchè l'amore gli ha tolto il timore servile di paura; e va dietro alle pedate di coloro che seguitano Cristo: e vede e cognosce che essi furono uomini nati come egli, pasciuti e nutricati come esso; e quella benignità e larghezza di Dio trova ora, che era allora.

Or di questo vero lame o cognoscimento desidera l'anima mia che voi, pastore e Padre mio, siate ripieno con abbon­dantissimo fuoco d'amore; sicchè nè diletti nè piacimenti nè stato nè onore del mondo vi possano offuscare questo lume; nè spine nè triboli nè ladro veruno vi possa impedire il corso di questa dolce via; ma sempre ci specchiamo nel Verbo In­carnato, unigenito Figliuolo di Dio, il quale fu a noi via e regola, che osservandola, sempre ci dà vita. Oimè, Padre, non voglio che sia tentazione o illusione di dimonio che c'impedisca; che sono posti come spine per impedire il nostro an­dare. Non sia il tribolo della carne nostra che sempre impugna e ribella allo spirito, che è suo nemico perverso, che mai non lo lassiamo indietro; ma sempre viene con esso noi: non sieno ladri e demonii inchinati delle creature, che spesse volte ci vogliono tollere l'amore[17] e la pazienzia con molte ingiurie e persecuzioni che ci fanno. Anco, alcuna volta pigliano l'of­fizio delle dimonia, volendo impedire li santi e buoni propo­nimenti che l'uomo averà e adopererà[18] secondo l'onore di Dio. A costoro non basta il loro male che fanno in loro me­desimi: chè ancora vogliono fare in altrui. Virilmente dunque perseveriamo nella via nostra, e confortianci, perocchè per Cristo crocifisso ogni cosa potremo.

Io godo ed esulto, considerando me dell'[19]arme forte che Dio ci ha data, e della debilezza de'nemici. Ben sapete che nè dimonio nè creatura può costringere la volontà ad uno minimo peccato. Questa è una mano si forte, che tenendo el coltello con due tagli, cioè d'odio e d'amore, non sarà veruno nemico sì forte, che si possa difendere, che non sia percosso o gittato a terra. Oh inestimabile ardentissima e dolcissima Carità, che, acciò che li cavalieri che tu hai posti in questo campo della battaglia possano virilmente combattere e spe­cialmente li pastori tuoi che hanno più percosse e più che fare che gli altri, gli hai dato una corazza sì forte, cioè la volontà, che niuno colpo, perchè percuota, la può nocere; perocchè egli ha con che ripararsi da' colpi, e con che difen­dersi. Guardi[20] pure che il coltello, che Dio gli ha dato, del­l'odio e dell'amore, egli nol ponga nelle mani del nemico suo: la corazza allora poco ci varrebbe, chè, colà, dov'ella è forte, diverrebbe molle. Chè io m'avvedo che nè dimonio nè crea­tura m'uccide mai se non col mio coltello stesso; con quello che io uccido lui, dandogli[21], egli uccide me. Chi uccide il vizio, il peccato ? solamente l'odio e l'amore: e il dispiacimento ch'io ho conceputo in esso[22]  all'amore che io ho conceputo alla virtù per Dio. Se il dimonio e la sensualità vuole voltare questo odio e questo amore, cioè che tu odii quelle cose che sono in Dio, e ami la tua sensualità che sempre ri­bella a lui perchè il dimonio voglia fare questo, non potrà, se la mano forte della volontà non gli 'l porge. Ma se gli 'l desse, col suo[23]  medesimo l'ucciderebbe. Dunque è da vedere quanto sarebbe spiacevole a Dio, e danno a noi; chè (sapete) padre, perchè voi sete pastore, non sarebbe pur danno a voi, ma a tutti li sudditi vostri; ed ogni[24] operazione che aveste a fare per voi, e per la Sposa di Cristo, la santa Chiesa, que­sto sarebbe impedimento.

Su dunque! non più dormite; rizzisi el gonfalone della santissima croce. Ragguardiamo l'Agnello aperto per noi, che da ogni parte del corpo suo versa sangue. O Gesù dolce, chi t'ha premuto, che in tanta abondanzia ne versi? Rispondi: l'amore di noi, e l'odio del peccato. Egli ci ha dato sangue intriso col fuoco della sua carità. Or a questo arbore ci ap­poggiamo, e con esso andiamo per la via sua detta. Bene aviamo materia di godere, però chq ogni nostro nemico è diventato debile e infermo, per questo dolce Figliuolo di Maria, unigenito Figliuolo di Dio. Il dimonio è indebilito, che non può tenere più la signoria dell'uomo, perduta l'ha. La carne nostra, che 'l Figliuolo di Dio prese di noi, è flagellata con obbrobri, strazi, scherni e improperii; onde l'anima, quando riguarda la carne sua, debbe subito perdere, e allentare la sua ribellione. Le lode degli uomini, o loro ingiurie che ci facessero, ogni cosa verrà meno, ponendosi innanzi il dolce Gesù, che non lassò nè per ingiuria che gli fusse fatta, nè per nostra ingratitudine, nè per lusinghe, che non com­pisse l'obedienzia per onore del Padre, e per salute nostra; sicchè l'onore del mondo s'atterrà[25] col desiderio e con l'amore dell'onore di Dio.

Or correte dunque per questa via. Siate, siate gustatore e mangiatore dell'anime, imparando dalla prima e dolce Ve­rità e Pastore buono, che ha data la vita per le pecorelle sue. Siate, siate sollicito d'adoperare per onore ed esaltazione della santa Chiesa; e non temete per alcuna cosa che sia avvenuta, o che vedeste avvenire; perocché ogni cosa è illusione di dimonio, che'1 fa per impedire li santi e buoni proponimenti, che, perché 26] non si faccia quello che è cominciato, pare che s'avvegga del male suo. Ma confortatevi, e confortate il no­stro Padre santo; e non temete di cavelle; e confortatevi vi­rilmente, non vi restate. Fate che io senta e veda che mi siate così una colonna ferma, che per veruno vento[27] moviate mai. Arditamente e senza veruno timore annunciate e dite la verità di quello che vi pare che sia secondo l'onore di Dio e renovazione della santa Chiesa. Or abbiamo noi altro che uno capo? E questo si dia a cento migliaia di morti se biso­gna, e ogni[28] pena e flagello, per amore di Cristo, che con tanto fuoco d'amore non vide[29]  sè per sè, ma per onore del Padre, e per salute nostra.

Non dico più, Padre; chè io non mi resterei mai. Ebbi grande letizia delle buone novelle che ci mandaste dell'avve­nimento di Cristo in terra, e del cominciamento del santo Passaggio. Non caggia tepidezza nè sgomento in voi nè nel santo Padre per le cose che sono poi avvenute; che con[30] questo, che ci pare contrario, si farà ogni cosa.

Io ho inteso che il Maestro[31] dell'Ordin nostro 'l santo Pa­dre 'l vuole promuovere. Pregovi per l'amore di Cristo croci­fisso che vi sia raccomandato l'Ordine, e che ne preghiate Cristo in terra, che ci dia uno buono vicario. Vorrei che lo informasse di Maestro Stefano della Cumba, che fu procura­tore dell'Ordine della Provincia di Tolosa. Credo che se egli cel darà, sarà grand'onore di Dio e racconciamento dell'Ordine; perocchè mi pare ch'el sia uomo virile e virtuoso, e senza timore. Ecci ora bisogno di medico che non abbia ti­more, e usi il ferro della santa e dritta giustizia; perocché tanto unguento s'è usato infino a qui, che li membri sono quasi tutti imputriditi. Io n'ho scritto al Padre santo: non ho detto però cui egli ci dia; ma ho pregato che cel dia buono, e che ne ragioni con voi e con messer Niccola da Osmo.

Se vedeste, per questo o per altro, fusse utilità o bisogno che frate Raimondo vi venisse[32]; scrivetelo, ed egli sarà subito alla vostra obedienzia. Altro non dico. Permanete nella santa e dolce dilezione di Dio.

Ser Gerardo Buonconti vi si manda molto raccomandando; e la madre mia[33] come a caro padre, ed esso come indegno servo vostro. Gesù dolce, Gesù amore.

 

 


 

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[1] C.D.C. III, 1, c. 527, a. 1370, pp. 223-24.

[2] C.D.C., III, 1, nota 1, p. 223.

[3] Infatti da alcuni, ad es. l'AUBERY, Histoire générale des cardinaux, I, p. 99, è detto francese della Champagne. Il MOLLAT nelle note al BALUZE, Vitae paparum Avenionensium, p. 756, dice giustamente che tale errore è derivato dal fatto che nella Prima Clementis VII vita il cardinale vien detto "natione Ytalicum sive Campanum", il che è stato inteso erroneamente per Champagne.

[4] Il GAMS, Series episcoporum, p. 911, ne sdoppia qui la persona.

[5] Vedi successiva nota n. 8.

[6] Oltre gli autori citati e quelli, in genere, che trattano dello scisma, vedi anche: N. CAMERA, Elucubrazioni, p. 299; CH. I. HEFELE, Historie des Conciles, p. 299, éd Leclerq, VI, par. II; L. GAYET,Le grand schisme d'Occidente, I; A. CUTOLO, Re Ladislao d'Angiò, I, 32.

[7] C.D.C., III, 2, c. 570 (errata invece in 580), a. 1382, pp. 15-17.

[8] C.D.C., III, 2, c. 565, a. 1381, pp. 6-7; ibid., nota n. 1, p. 6.

[9] vedi G. CAETANI, Domus, I, par. I, p. 301

[10] P. MISCIATTELLI (a cura di) Le lettere di S. Caterina da Siena… con note di Niccolò Tommaseo, vol. III, pp. 108-114, Firenze 1970.

[11] Giacomo d'Itri; prima vescovo d'Ischia, poi di Martorano, nel 1363 d'Otranto. Nel 67 fece in Napoli alla regina discorso eloquente sui misfatti impuniti in quel regno commessi. Nel 1370 Urbano V lo fece visitatore ne' Monisteri basiliani del regno; Gregorio nel 76 Patriarca di Costantinopoli, lasciandogli la chiesa d'Otranto. Aderì a Urbano VI; ma poi a Clemente, che nel dicembre del 78 lo fece de' suoi cardinali; nel 79, partendosi verso Francia lo lasciò suo legato presso Giovanna. Ma prevalendo Carlo di Durazzo, il legato d'Urbano fece incarcerare e Giacomo e un al­tro cardinale legato dell'antipapa. Chi lo fa morto in carcere, chi di poi ravveduto.

[12] Simile in Dante:

« Facesti come quei che va di notte,

Che porta il lume dietro, e sè non giova,

Ma dopo sè fa le persone dotte ».

Il languore e lo stento del terzo verso aggiunge stima alla semplice prosa della fanciulla non dotta.

[13] Più potente che in Dante nel luogo stesso: «Appresso Dio m'alluminasti».

[14] Studi sè, per conoscersi davvero, non per vagheggiarsi, nè per iscusarsi a sè stesso; e neanco per oziosa vanità, ch'è un indiretto solletico dell'amore proprio. La psicologia, fatta centro della scienza, sorge al tempo d'Elvezio e del Bentham.

[15] Dante: «Supin si diede alla pendente roccia». Virgilio: «Saltu praeceps sese... In fluvium dedit». Ma in questi vale; abbandonarsi; in Caterina è più libero, darsi coll'impeto affettuoso dell'anima.

[16] Così in più dialetti; e tiene dell'origine nordica (giova che tale vocabolo non sia nato qui, se pur troppo allignatoci), rauben.

[17] La più grave tentazione che dagli avversari ci venga, non è il dolore o il disagio, la contradizione o l'umiliazione; è il pericolo che noi disimpariamo l'amare.

[18] GI'impediranno che operi. Non s'intenda adoprare il proponimento, ma assoluto operare.

[19] Come pensare col di

[20] Credo abbia a leggere: guarda, pureché; cioè: eccetto solo, purché (nel senso già spiegato di guarda).

[21] Dandoglielo. Forse avrà inteso dandogli.

[22] Contro. Dante: «Spirto non vidi in Dio tanto superbo».

[23] Manca forse coltello. Ma può stare così.

[24] Non correggo e ad ogni. de' soliti modi. Potrebbesi anche leggere e d'ogni. Ma più franco così.

[25] La stampa atterrava.

[26] Benché si vada lenti e alla crociata, e al ritorno del pontefice, e alla riforma della Chiesa; nondimeno il demonio s'avvede che siamo avviati.. E forse intende anco di certi prelati renitenti, che altrove chiama demoni ­incarnati.

[27] Dante: «Sta come torre ferma, che non crolla Giammai la cima per soffiar de' venti ».

[28] Può sottintendersi l'a, o un altro verbo da cui ogni dipenda. Dice: una vita sola abbiamo; e, sostenuta una morte, la battaglia è vinta, la corona pronta. Ma, fossero mille morti, al premio gli è poco. 

[29] Pare intenda non ebbe riguardo.

[30] La guerra in Toscana, e il sommuoversi delle città papali. Dice: non solo nonostante questo, ma con questo riavrà il meglio; perché e i reg­gitori e i popoli, dalle percosse reciproche, si faranno ravveduti; e l'Italia e la Chiesa l'innoverà.

[31] Generale domenicano Frate Elia da Tolosa, succedeva nel 67 a Fra­te Simone, fatto vescovo della città di Nantes. Nell'80, tenendo per Cle­mente, Elia fu deposto da Urbano VI, e ne' paesi non tocchi da scisma gli sottentrò Raimondo, confessore di Caterina.

[32] Di lì a poco e' ci andò in Avignone. Non lo manda da sé, sebbene già donna autorevole; ma, con modestia prudente, fa ch'altri lo chiami. E così l'Italiana fervente propone a Generale un Francese, pur che buono, per meglio persuadere i suoi spassionati consigli.

[33] Essendo Lapa in Siena, convien dire che il Buonconti pisano, il quale apparisce scrittore di questa lettera, fosse in Siena allora: e poi se­guitò in Francia Caterina.

Questa ricerca può essere parzialmente utilizzata per uso di studio e ricerca, citando la fonte: Cece Albino, "  Giacomo da Itri,  papa Urbano VI e S. Caterina da Siena" nel sito Internet: www.visitaitri.it.

 

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