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I SARDI a ITRI

di Pino Pecchia

 

 

PREMESSA (al libro)

Qualche anno fa mi interessai ai tragici fatti che gli anziani ricordano per sentito dire de I Sardi a Itri. Fui contattato da un giornalista della Rai, in cerca di notizie relative a ciò che accadde, il 12 e il 13 del luglio 1911, su cui da qualche tempo raccoglie materiale. Il nostro colloquio diede vita ad un’intervista trasmessa alle ore 14,00 del 28 ottobre 1995, in una rubrica settimanale di Radio due. 

Le vicende de I sardi a Itri non sono sicuramente momenti di vita che gli Itrani ricordano con piacere. La stessa storiografia locale (vari testi pubblicati sulla città), accenna appena agli avvenimenti del 1911. È come se tra i cultori di storia patria, si fosse tramandata la volontà di stendere un pietoso velo su un avvenimento, la cui tragica violenza (tre morti e decine di feriti) interessò le cronache dei quotidiani nazionali, le autorità periferiche dello Stato, civili e militari, nonché lo stesso Parlamento nazionale con interrogazioni di deputati sardi e dell’on. Cantarano. I tragici fatti furono rievocati, come era inevitabile, nelle aule giudiziarie del Tribunale di Cassino, e poi per richiesta del Procuratore Generale al Supremo Collegio, il processo fu trasferito alla Corte d’Assise di Napoli per legittima suspicione. Trentatré imputati furono assolti dai giurati popolari, nove condannati in contumacia, a trenta anni di carcere. Ho tentato di ricostruire quella tragedia, evidenziando gli avvenimenti che l’ hanno preceduta e seguita. Il mio pensiero ricorrente: ricostruire gli avvenimenti, con serenità, rimanendo sopra le parti (mi auguro di esserci riuscito).

Questo lavoro è il risultato di un’attenta analisi di documenti inediti trovati presso l'archivio di stato di Roma, di Caserta, il Museo Campano di Capua, la Biblioteca Nazionale di Roma, l’archivio dello stato civile del Comune di Itri; arringhe difensive degli avvocati: Francesco Manzi di Itri: In difesa degli Itrani Ed. tip. Arturo Pansera, Fondi, 1914 e Angelo de Stefano: La rivolta d'Itri legittima difesa d'una folla Vallardi Antonio Editore, Napoli, 1914. Articoli di cronaca, relativi ai fatti di Itri, apparsi su alcuni quotidiani del 1911 e del 1914 di una rievocazione (1986?) apparsa sulla stampa, autrice Eugenia Tognotti nella rubrica Parliamo della Sardegna a cura di Manlio Brigaglia - Storia: Il primo contributo di sangue degli emigrati isolani che lavoravano in Ciociaria. Articolo su cui s’impernia la mia ricostruzione, per tentare di capire se, dopo tanto tempo, la strage di Itri, può creare, ancora, malessere. Utili notizie mi sono state fornite da storici di Fondi, altra città frequentata dai lavoratori della ferrovia e da alcuni cittadini itrani. Motivi di spazio, mi hanno impedito la pubblicazione della lunga arringa del de Stefano (100 pag.), di cui trascrivo le “Notizie del processo” ed alcuni brani.

Ci sono numerose fonti per ricostruire il dramma di due comunità che si fronteggiarono, come è emerso dalle ricerche, su tre aspetti: morale, istituzionale, sociale. Tutte e tre hanno un comune denominatore: la prevaricazione, comune alle parti in causa. Una miscela pericolosa, esplosiva, con effetti devastanti che finì con: “La caccia al sardo” come fu definita dalla stampa.

Nel capitolo riservato all’emigrazione vi sono considerazioni su un periodo drammatico vissuto dagli italiani emigrati nel mondo, riconducibile ad alcuni fatti capitati agli emigranti sardi venuti per la costruzione del tratto ferroviario Roma-Napoli, in Terra di Lavoro. Un tenue filo conduttore li collega. Nella parte seconda ho riportato il materiale trovato negli archivi suddetti; sono in maggioranza della stampa sarda, la cui posizione era favorevole agli isolani. Scritti da considerare punto di partenza e non di arrivo, per chi vorrà aggiungere memorie agli avvenimenti in questione. Il tutto, mi ha comportato un lavoro di copiatura per lungo tempo, per la non buona leggibilità delle fotocopie riprodotte da microfilm di giornali di quasi cento anni. N’è valsa la pena. L’arringa dell’avv. Francesco Manzi mi fu data dal suo pronipote dott. Ciccio Manzi; il prof. Mimmo Del Bove mi ha dato una copia del diario del padre Antonio, pubblicato nel 1991; l’arringa dell’avv. de Stefano donata dall’ins. Egidio Agresti, che nel luglio del 2002 mi suggerì, di intraprendere la stesura di questa rievocazione e di valutare i fatti con serenità. Li ringrazio, per il prezioso materiale e per i loro utili suggerimenti.

La mia ricostruzione non poteva che basarsi su atti ufficiali, quelli processuali, riportati nelle arringhe. Le notizie di cronaca allegate arricchiscono la conoscenza dei fatti, esulano dall’inchiesta della magistratura, vanno lette come si legge un quotidiano: per informarsi, ma con distacco, ben sapendo che chi scrive alimenta differenti passioni. A distanza di novantadue anni, tutto va letto con serenità d’animo. Allora come oggi, le notizie sono affidate all’intelligenza e al discernimento di chi scrive, a volte anche ad interessi di parte; in qual caso l’obiettività diventa un optional. Gli atti ufficiali e la cronaca dell’epoca formano un complesso di notizie che ci presentano uno spaccato di vita di allora in cui, sia le istituzioni, sia il popolo, avevano una visione della legalità ben diversa da quell’odierna. La giustizia privata era un modo per difendere individui e proprietà, non escluso quelle esasperate forme di campanilismo che si sono perpetrate fino ai primi anni del secondo dopoguerra. Certo, tutto questo può non facilitare la lettura; basta un po’ di buona volontà.

Ricercare per sapere e tramandare, con onestà mentale, cercando di analizzare le cause, senza ingigantirne gli effetti; questo il motivo che mi ha spinto, più semplicemente, chiamatela, curiosità di una “Storia”. L’invito che rivolgo è: leggere per conoscere, senza proporre antichi rancori, il mio lavoro, svilirebbe anni di ricerche, più che inutile, sarebbe dannoso. Non è questo il mio intendimento.

Mi auguro inoltre di aver contribuito con la mia ricerca ad accrescere il patrimonio di notizie di questa città, ricerca condotta in piena autonomia e con senso di responsabilità verso gli enti che hanno patrocinato il mio lavoro. Li ringrazio per la fiducia accordatami. Ho preferito, separare questo testo da quello che congiuntamente ho pubblicato e presentato dal titolo: “Tra sacro e profano in Terra d’Itri”. Un solo motivo: i contenuti di questa tragica storia, poco si adattano al testo citato, considerato il tenore di molti articoli qui riprodotti, opportuno mi è sembrata la loro separazione, adottata in piena libertà, ascoltando i preziosi consigli di mia figlia Silvana, paziente consigliera di ciò che andavo via via scrivendo. Le ricerche sono durate anni, mi è stato di grande aiuto negli ultimi sei mesi e lo ringrazio, Roberto Antogiovanni nel lavoro di ricerca presso la Biblioteca Nazionale di Roma, visionando con me per decine di ore microfilm di giornali dal 1911 al 1914.

Ringrazio il giornalista pubblicista Albino Cece di Ausonia, residente a Itri, lo scrittore e ricercatore di storia locale di Fondi, Dario Lo Sordo, ho profittato della loro pazienza ed esperienza di giornalista e cultore di storia locale.

Personaggi della passata vita amministrativa di Itri, Egidio Agresti e Mimmo Del Bove sindaci, Ciccio Manzi vice sindaco e oggi Raffaele Mancini, assessore alla cultura, disgiuntamente, e in un periodo molto lungo (20 anni), hanno dato a me, di Fondi, appassionato di storia e di tradizioni locali, la possibilità di scrivere della loro terra, spero, in un giudizio benevolo. Altrettanto auspico da parte della gente di Sardegna, se mai qualcuno mi leggerà. In uno spirito nuovo, prima di tutto di solidarietà verso le vittime, ma anche di comprensione per i disagi, le pressioni ed una serie di circostanze avverse e deprecabili, che spinsero al tragico gesto la gente di Itri. (Pino Pecchia)

                                                      

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Presentazione (al libro)

 

Ho sempre sentito raccontare dagli anziani di un terribile fatto di cronaca che ha sconvolto Itri nel 1911: tre uomini furono uccisi, molti di loro rimasero feriti.

 Ogni racconto era circondato da un velo di mistero: avevo l’impressione che chi narrava, riportava, volontariamente, in maniera vaga i fatti, vuoi per rispetto delle vittime, vuoi per un senso di rimorso per quanto alcuni abitanti di Itri avevano commesso.

 Non posso certo essere io a raccontare oggi, quanto avvenne novantadue anni fa, ma soffermarmi su alcuni aspetti della vita di allora, è possibile.

 Itri all’epoca era un tranquillo paese di circa 6000 abitanti, per lo più dediti all’agricoltura o all’allevamento del bestiame; grandi lavoratori e persone con un innato senso dell’orgoglio.

 In quel periodo, tra Fondi e Formia erano in corso i lavori delle gallerie per la linea ferroviaria che doveva collegare Roma a Napoli attraversando il territorio di Itri.

 Tra gli operai addetti a tali lavori vi era una nutrita comunità di sardi che abitava a Itri.

 Ebbene tra i Sardi e gli Itrani i rapporti si deteriorarono a tal punto che si verificò quel terribile fatto di sangue. Ci fu un regolare processo, alcuni condannati in contumacia, altri assolti. La stampa nazionale si occupò dei fatti, finanche il Parlamento nazionale; ma dopo, come già detto, poco si è scritto di quei due tragici giorni.

 Vorrei però soffermarmi su un argomento che potrebbe accomunare piuttosto che dividere, la comunità itrana e quella sarda, dopo tanti anni.

 Era quello, il periodo delle grandi migrazioni, il popolo di Itri si vedeva depauperato le risorse giovanili che andavano a cercare fortuna in altri paesi, spesso molto lontani: alcuni di loro ebbero fortuna, altri no.

 I tre operai sardi rimasti uccisi a Itri avevano lasciato le loro famiglie per guadagnarsi da vivere onestamente, lontani dalla terra natia, purtroppo furono pianti dai loro cari; capitò anche a tante famiglie itrane piangere i propri familiari per avverse condizioni di vita, che l’autore ha richiamato nella seconda parte del libro.

 Ecco, nel parlare di quei tragici avvenimenti, invito a cercare punti di congiunzione e di pacificazione piuttosto che addossare colpe all’una o all’altra fazione, oggi non avrebbe alcun senso. Parlo quindi di due comunità, che, seppure in maniera diversa, hanno vissuto il loro dramma.

 Ora qualcuno ha voluto raccontare ciò che successe il 12 e il 13 luglio del 1911, ma lo ha fatto senza spirito campanilistico e senza elevarsi a giudice.

 Quando l’amico Pino Pecchia mi propose di pubblicare le sue ricerche, non nego di aver avuto il timore di riaprire una vecchia ferita. Mi sono reso conto, però, che lo spirito che animava l’autore, itrano d’adozione, era quello di ricostruire e far conoscere alle nuove generazioni, gli avvenimenti di allora, tramite i documenti ritrovati dopo anni di minuziose ricerche presso archivi vari.

È questa l’occasione più propizia per cercare, dopo quasi un secolo, di riavvicinare la comunità itrana e quella sarda convinto che: Sardi e Itrani furono vittime, rimanendo fortemente segnati dai fatti di sangue.

 Non mi resta che ringraziare l’amico Pino Pecchia, il quale ha voluto assumersi l’onere di trattare questo spinoso argomento; lo ha fatto con molta delicatezza e circospezione, ricostruendo ove era possibile i fatti ma ponendosi anche degli interrogativi a cui credo è oggi impossibile dare una risposta.

 Mi auguro, quindi, che la pubblicazione di questo libro sia di auspicio per futuri incontri con rappresentati della comunità sarda, ora è giusto che il tutto venga consegnato alla storia e si cerchi di addivenire ad una assoluzione e ad una pacificazione morale di tutti i protagonisti di quella triste vicenda.

 

Raffaele Mancini

Assessore alla Cultura

del Comune di Itri

 

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Prefazione (al libro)

 

A proposito della storia così si esprime Tucidite: “Tu pure sai, amico mio, come questa non sia affatto un’attività facile (...), anzi più di ogni altra scrittura esige preparazione( ...).

La difficoltà del lavoro storiografico, è fatta consistere, in definitiva, nel vaglio, certamente arduo, delle testimonianze e delle contrastanti relazioni sui fatti.

Per questo gli avvenimenti tragici del 12 e 13 luglio 1911 sono qui illustrati dall’autore mediante una ricca e diversificata documentazione sulla quale il lettore è chiamato a svolgere un ruolo attivo di analisi e di interpretazione non tanto per giudicare, quanto per prendere coscienza della complessità dei fatti e del contesto in cui essi si sono sviluppati.

Solo così, infatti, ogni avvenimento assume una significazione profonda e diventa “storia”.

Questa operazione gli consente di riproporre momenti di vita violenti e tragici della comunità che gli itrani non ricordano certo con piacere perché nessuno è chiamato a giudicare e tutti sono invitati a “comprendere”.

La nostra Provincia, con un capoluogo così giovane, comprende comunità che soprattutto nel sud hanno vissuto pienamente tutte le contraddizioni della storia unitaria.

Queste popolazioni, però, la storia non hanno mai voluto subirla.

Per il loro carattere fiero e “ribelle” non hanno mai accettato imposizioni, violenze, offese.

Gli uomini sono tenaci, profondamente legati alla propria terra, agli affetti familiari.

Così si esprime Antonio Del Bove nel suo Diario di emigrante :”non posso per nessuna ragione allontanare da me il pensiero dei miei cari, da cui questa nave mi sta portando sempre più lontano.... Per loro sopporterò l’amarezza della lontananza e tutti gli eventuali sacrifici i quali dovrò affrontare nella terra che mi ospiterà”.

L’amore per la propria terra si esprime da queste parti come sentimento di “religiosità” profonda che appartiene alla comunità e che viene trasmesso geneticamente come patrimonio individuale ad ogni suo membro.

Altro che “campanilismo”!

Ho letto e riletto questo testo e non ho mai avuto dubbi: esso doveva diventare patrimonio della più vasta comunità provinciale.

Personalmente, in qualità di Presidente della Commissione Provinciale Cultura e Turismo ho patrocinato questa pubblicazione ritenendolo un dovere e non per amicizia o per puro campanilismo.

C’è in me la consapevolezza che la Provincia pontina, riscoprendo le sue radici più profonde e più vere, potrà meglio riconoscersi nella propria identità.

Per questo sarà molto più agevole la condivisione piena del progetto di crescita e di sviluppo da tutti auspicato.

La fierezza, la tenacia, l’amore per la propria terra faranno il resto.

 

Massimo Avallone

Presidente della Commissione

Cultura e turismo

Provincia di Latina

 

 

  "I Sardi a Itri" di Pino Pecchia
Itri, 30 agosto 2003, Museo demoetnoantropologico del Brigantaggio

 

(Intervento alla presentazione del libro)

Dalla magistrale opera di ricerca effettuata dall'amico Pino Pecchia sui sanguinosi fatti accaduti ad Itri negli scontri tra itrani e operai sardi addetti alla costruzione della direttissima ferroviaria Roma-Napoli emerge in sintesi un problema verificatosi a quell'epoca e che perdura tuttora: si è difeso abbastanza oppure no il buon nome d'Itri e la sua immagine di paese onesto e laborioso in occasione degli eventi di quel lontano luglio 1911?
Perché la comunità itrana si è limitata a difendersi soltanto in tribunale e soltanto quei cittadini che la forza della legge aveva individuati come protagonisti di quegli eventi?
Perché poco o nulla si fece per contrastare la diffusione nazionale della falsa immagine di una Itri banditesca e dedita al brigantaggio abituale come sua risorsa di vita?
La verità invece era quella di una Itri laboriosa e onesta e, per molti aspetti, anche ricca rispetto alla massa di sardi qui giunta per lavorare "sotto padrone".
L'amico Pecchia con questa ponderosa ricerca storica ha restituito un quadro di quei fatti sanguinosi accaduti all'inizio del secondo decennio del secolo scorso.
Una massa disperata di sardi, sottopagati e peggio assistiti dal datore di lavoro, faticava duramente al taglio delle pietre aurunche per procedere alla costruzione del tracciato della direttissima ferroviaria Roma-Napoli; una folla enorme di gente bisognosa, baraccata e priva di istruzione si era riversata su questo paese che mai aveva subito interferenze esterne tanto pesanti e se l'aveva avute se n'era subito liberato con la forza e la coesione sociale che distingue tuttora la comunità itrana.
La complessa opera di Pino Pecchia è il risultato di una ricerca faticosa, puntigliosa, precisa, indipendente, svolta in sede locale e presso i grandi archivi e le biblioteche di tutta Italia per mettere insieme quei documenti originali che potessero mostrarci sia la vita itrana dell'epoca che la sequenza di quei tragici avvenimenti che insanguinarono la terra d'Itri riportandola ancora una volta alla ribalta nazionale come luogo di mafia, di camorra e di brigantaggio.
Potrete leggere la successione degli eventi nello splendido lavoro di Pino Pecchia; noi ora ritorniamo alla domanda iniziale: perché gli itrani lasciarono che si accreditasse per tutta l'Italia l'immagine degli itrani briganti e delinquenti?
Tentare una risposta è di enorme complessità perché coinvolge l'uomo, la ricerca storica locale, la storia nazionale, il sentimento di italianità.
Coinvolge l'uomo perché quest'opera è un atto d'amore di cui Pino Pecchia fa dono al popolo d'Itri al cui servizio ha dedicato buona parte della propria vita.
Coinvolge la ricerca storica locale che finora si è dimostrata completamente assente su questo episodio di cui fu protagonista la società itrana.
Coinvolge la storia nazionale perché gli eventi che qui si verificarono ebbero eco profonda sulla stampa dell'epoca e nel parlamento nazionale presentandosi i fatti anche come una conseguenza delle prime lotte sindacali allora ancora in nuce.
Più complesso è discutere del sentimento di italianità sotteso allo svolgimento degli eventi così magistralmente raccontati da Pino Pecchia e che con grande sensibilità l'amministrazione comunale di Itri ha deciso di pubblicare a stampa per renderne consapevoli tutti i cittadini.
Prima di tutto occorre decidersi a dare una definizione essenziale del fenomeno del brigantaggio che negli ultimi due secoli si è verificato in queste nostre zone sia all'epoca dell'invasione francese del 1799 sia durante la conquista sardo-piemontese del regno di Napoli che portò all'unificazione dell'Italia fissata al 1860.
Furono i vincitori francesi prima ed i sardo-piemontesi poi a definire come brigantaggio quel moto volontario di resistenza organizzato dai sudditi del regno borbonico che nulla volevano sottostare né ai francesi né ai sardo-piemontesi. Certamente si verificarono devianze ed esuberanze ma la stessa cosa si verificò poi con la resistenza antifascista nell'immediato dopoguerra del 1945.
Ebbene, i sudditi napoletani furono briganti perché nel 1799 non avevano alcun interesse ad essere assorbiti nella cultura laica ed antireligiosa della rivoluzione francese; furono briganti dal 1860 perché si accorsero che nessun vero beneficio veniva al popolo non dalla liberazione sardo-piemontese ma dalla brutale conquista e seconda depredazione delle ricchezze del sud d'Italia.
Il fenomeno del brigantaggio ovvero di una disorganizzata resistenza all'invasore, divenne endemico nelle nostre contrade con tutti i possibili eccessi che ne seguirono e che all'indomani della caduta di Gaeta e della Unità d'Italia si protrasse ancora per molti anni e allorché si verificarono i fatti di Itri esso non affiorava da una trentina d'anni anche se la conquista sardo-piemontese non era stata tuttavia del tutto digerita dalle nostre popolazioni.
Ma è proprio vero che la cultura itrana dell'epoca, che pure contava valenti personaggi, non contrastò mai con forza l'immagine di una società itrana dedita abitualmente alla delinquenza come si andava consolidando a livello d'opinione pubblica nazionale e istituzionale?
Le richieste di aiuto rivolte dalle autorità itrane ai rappresentanti dello Stato nazionale per evitare scontri e lutti furono sempre e del tutto disattese come documenta la ricerca del Pecchia. Perché?
Per tentare una spiegazione di questo comportamento bisogna ricercare soccorso nella nostra storia nazionale.
Allorché si verificarono gli eventi di Itri, da appena una trentina d'anni il Regno sabaudo di Sardegna aveva consolidato la sua conquista del regno di Napoli dopo aver bollato dell'infamia del brigantaggio queste nostre terre che per decenni avevano contrastato con violenza la conquista piemontese contrabbandata come liberazione dal giogo borbonico. All'epoca dei fatti sanguinosi di Itri, queste zone ancora scontavano le conseguenze dell'occupazione violenta dei piemontesi guidati da una dinastia sabauda che dominava proprio sull'isola di Sardegna sin dalle sue origini.
Nessuno finora si è mai domandato perché ai lavori ferroviari tra Roma e Napoli siano stati impiegati migliaia di operai fatti affluire dalla Sardegna, quando la miseria del centro-sud della terraferma italiana, spogliata dall'invasione francese prima e da quella sardo-piemontese poi avrebbe potuto fornire manodopera numerosa e a basso costo e che invece fu costretta poi al grande balzo dell'emigrazione d'oltre oceano già allora in pieno svolgimento.
L'impiego di tanta manodopera sarda in terraferma riteniamo si debba ricercare con molta probabilità in un grazioso regalo che il re di Sardegna - divenuto Re d'Italia - faceva ai suoi fedeli sudditi per sollevarli dalle condizioni di miseria in cui si trovavano pur'essi; avvenne qui non più e non meno quanto descritto dal Pecchia nel capitolo relativo all'emigrazione italiana d'oltre oceano.
I sardi, però, venendo in terraferma, in questo centro-sud da poco conquistato dal loro Re, si trovavano nella condizione psicologica non degli italiani emigrati in America bensì in quella dei conquistatori che venivano qui a prendere anch'essi la loro parte e così sembra di capire dalla lettura dei documenti ufficiali raccolti dal Pecchia.
Gli itrani facendo parte del popolo napoletano conquistato non trovarono alcuna difesa nello Stato Sabaudo mentre ai sardi fu accordata una sorta di tacito salvacondotto tanto da portare all'esasperazione la società itrana non nuova ad atti di resistenza violenta.
Infatti l'invasione francese di queste contrade dette vita alla resistenza antifrancese di cui il più valido stratega fu l'itrano Michele Pezza, conosciuto in tutto il mondo col nome di Fra Diavolo; in occasione dell'Unità d'Italia, al movimento di resistenza contro le vessazioni piemontesi e sabaude venne affibbiato ancora il nome di "brigantaggio".
Questa terza resistenza alle prepotenze dominatrici non si svolse del tutto il campo aperto, ma si estinse nelle aule dei tribunali e a nulla valse che gli itrani rivendicassero il loro buon nome e la loro onestà contro un orientamento generale a considerare queste terre come un focolaio di briganti e camorristi.
Dopo un secolo, Pino Pecchia ha ristabilito la verità con quest'opera che, a giusto titolo, può inserirsi tra quelle riguardanti quel recente filone culturale di revisione delle fonti storiche del centro-sud d'Italia e che ha lo scopo di strappare alle latebre del passato quelle verità per troppo tempo taciute alle nuove generazioni.
Quest'opera porta all'evidenza il pregiudizio delle istituzioni nazionali di allora e la mancata protezione offerta alla nostra gente, la poca considerazione nella quale furono tenute le proteste delle autorità locali dell'epoca anch'esse indicate come colluse col brigantaggio, definizione questa che fece comodo alle istituzioni medesime per prevaricare dal loro dovere e mantenere al lavoro in condizioni poste al limite della civiltà una massa di "poveri Cristi" provenienti dalla Sardegna.
Un grazie a Pino Pecchia, ape laboriosa, per averci offerto un cospicuo strumento di approfondimento storico, sociologico e di riflessione, un omaggio che egli fa a questa città con l'intenzione di rivalutarne umanità e solidarietà.

Albino Cece
Giornalista-pubblicista

 

Presentazione del libro a Itri (LT) il 31 agosto 2003 (foto-studio Vito La Rocca)

 

           Le gallerie: Vivola (Fondi-Itri) e Montorso

M.S. Biagio (LT)-Priverno della

direttissima Roma-Napoli.

Presentazione a Campodimele (LT)- (foto Pietro Zannella)

 

 

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